L’intervista che, in occasione dell’assise energetica di Dubai, il ministro Gilberto Pichetto Fratin ha rilasciato a Repubblica è illuminante riguardo le strategie che il governo intende portare avanti nel delicatissimo settore energetico che, nel nostro Paese, è fondamentale per programmare, con senso pratico e senza lasciarsi trascinare da sogni e chimere, il futuro dell’Italia. Il futuro in campo economico e anche sociale, che rischia di diventare un’emergenza se non si adotteranno le giuste decisioni per ridare, a tutti, fiducia per il domani.
Il ministro ha toccato più argomenti, ma quello che è apparso certamente il più interessante riguarda l’atteggiamento del governo rispetto al dossier energetico, più in particolare al ricorso all’energia nucleare sul quale Pichetto Fratin è stato chiarissimo, dicendo che l’Italia dirà di sì al nucleare, senza però che lo Stato realizzi centrali atomiche.
Non è un controsenso, ma una scelta che si potrebbe definire pragmatica, addirittura di buon senso perché, a fronte dell’emergenza climatica (di cui bisognerà, prima o poi, farsi carico con decisioni e provvedimenti realmente incisivi e non solo annunciati), il governo non volta le spalle all’energia nucleare, ma ne lascia il peso ai soggetti che operano sul territorio. E Pichetto Fratin lo ha spiegato, anche perché sul nucleare lo stesso presidente del consiglio, Giorgia Meloni, era apparsa prudente facendo intendere di sostenere una energia più pulita rispetto a quella a fissione atomica.
Quindi, per riprendere le parole del ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, il governo ”non costruirà mai nuove centrali nucleari in Italia. Lo Stato non realizzerà reattori, saranno eventualmente i distretti industriali o le singole aziende energivore a dotarsi di piccoli reattori modulari di quarta generazione. Lo Stato si limiterà a essere un soggetto regolatore. La Piattaforma che abbiamo lanciato continua a lavorare e non si occupa solo di fissione ma anche di fusione”.
Quindi: sì al nucleare, ma ad occuparsene saranno i distretti industriali o le stesse aziende che consumano molto in termini energetici. Una scelta, come detto, che ribalta i termini ”politici” del dossier energetico, ammettendo che il nucleare abbatte le emissioni inquinanti e si candida ad alternativa efficace e duratura al ricorso ai combustibili fossili. In questo modo garantendo quella indipendenza energetica di cui oggi tutti auspicano l’avverarsi. Va da sé che i nuovi micro-impianti nucleare dovranno essere di ultimissima generazione e garantiscano totale sicurezza sia in relazione al funzionamento che al trattamento delle scorie. Insomma, parrebbe da capire, lo spettro di Cernobyl non può continuare ad aleggiare sul futuro energetico dell’Occidente.
Ma può essere solo questa la soluzione, per un Paese che deve guardare alle energie rinnovabili con un interesse ben maggiore di quello attuale? Non necessariamente, perché l’Italia è tra i firmatari dell’accordo che prevede di triplicare le installazioni per le rinnovabili entro il 2023. I numeri, da questo punto di vista, dovrebbero essere tranquillizzanti, perché, secondo il Piano nazionale integrato energia e clima, il solare che nel 2020 generava 21.650 megawatt nel 2030 dovrà salire a 79.921. Che, tradotto in incremento percentuale, significa +369,15%. Non meno significativo l’aumento dell’eolico che, passando da 10.907 a 28.140 megawatt, registrerà un +258%.
La posizione geografica e le condizioni del territorio dovrebbero essere sfruttate al meglio, per aumentare o potenziare gli impianti per le rinnovabili, ma gli impedimenti burocratici sono tanti (basti solo pensare all’immenso patrimonio di beni culturali e al peso della filiera agricola) e non facilmente superabili. Se non prendendo consapevolezza che alcune scelte, vitali per il futuro del Paese, potrebbero anche essere dolorose, ancorché necessarie.
Marco Paccagnella