Pace fiscale. Tregua fiscale. Rottamazione. Fisco amico. Dietro queste espressioni, solo apparentemente confortanti, il fisco italiano resta una specie di mostro che, a dispetto delle dichiarazioni di principio e dei molti spezzettati tentativi di riforma, continua ad essere un freno a mano tirato sulla crescita del sistema economico del Paese, anziché uno strumento per raccogliere le giuste risorse per agevolarne lo sviluppo e per garantire gli equilibri sociali.
E non è solo un problema di pressione fiscale alle stelle, ma anche di norme complesse e spesso incomprensibili, contraddittorie e di burocrazia ingestibile.
Dalle ultime rilevazioni effettuate dalla Banca Mondiale, il tempo che si richiede per dare corso agli adempimenti fiscali in Italia è in media di 238 ore l’anno, contro le 82 che si impiegano in Irlanda, o le 139 in Francia, tanto per fare un esempio.
In ore lavorative è come se un imprenditore o un professionista dovesse smettere di lavorare per un mese all’anno solo per dedicarsi agli adempimenti burocratici necessari per poter adempiere ai suoi obblighi fiscali.
Questo mostro, nel corso degli anni, ha generato oltre mille miliardi di debiti fiscali insoluti che il braccio armato del fisco, ossia l’Agenzia della riscossione (altro mastodonte burocratico che assorbe più risorse di quelle che riesce a generare), non riesce a recuperare e di cui, secondo le stime della stessa Agenzia, è plausibile che sia possibile recuperare solo un risicato 10%.
Mille miliardi, di cui 900 di crediti fittizi. Numeri che gonfiano artificiosamente il bilancio pubblico, e che non ci si rassegna ad abbandonare usando un minimo di realismo: ogni volta che qualcuno si azzarda a parlarne viene agitato lo spettro dell’evasione fiscale, dell’immoralità delle sanatorie e si strilla che non si può darla vinta ai furbetti che non pagano a danno dei contribuenti più diligenti.
Il tema, però, ha cause più profonde, strutturali e, chiaramente, la volontà politica di affrontarlo in radice, assumendosene la responsabilità è pressoché inesistente.
Di fronte a numeri così macroscopici il problema non può essere liquidato sul presupposto della furbizia o dell’inclinazione a degli italiani a non rispettare la legge. È un dato ormai assodato che il fisco italiano, per una vasta porzione di operatori economici non è sostenibile.
Non è sostenibile in termini di pressione fiscale, non è sostenibilein termini di inutili complessità burocratiche, è insostenibile in termini di incertezze normative, è insostenibile in termini di aggressività delle agenzie fiscali (siano enti impositori o riscossori).
A questo tipo di problemi, fino ad oggi, le uniche risposte che la politica ha dato ai contribuenti sono una serie di provvedimenti dal corto respiro, stile patchwork, volti a tamponare le emergenze o a fare cassa nel breve termine, oppure limitando sempre più gli strumenti di tutela e di difesa nelle aule giudiziarie, sempre più pigre e supine alle ragioni dell’erario anche quando in ballo ci sono serie di diritti fondamentali del cittadino e del contribuente.
Quindi, si vuole che espressioni come “fisco amico” o “collaborazione tra fisco e contribuente” non restino delle etichette prive di significato? Si vuole perseguire l’obiettivo di un vero rilancio del tessuto economico, fatto in larga prevalenza di piccole e medie imprese e di partite Iva che non possono contare sul supporto di corposi uffici legali interni?
Se è davvero così si devono risvegliare nuove consapevolezze sui diritti del cittadino e riscrivere da zero una carta dei diritti del contribuente.
E occorre farlo subito.
Marco Paccagnella con l’avv. Luciano Quarta consulente legale in materia tributaria per la Federcontribuenti.